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bosco_pantano_policoro.jpgQuesta può essere la fine di un monumento della natura, nella “civilissima” Italia, ed è la fine che sta facendo il Bosco di Policoro, o meglio quello che ne resta. Era un grandissimo Bosco, plurisecolare, intramezzato da aree palustri ricchissime di fauna, uno degli ultimi boschi planiziari, a carattere mezzo idrofilo sulle coste mediterranee. Chi vide questa meraviglia, nel 1956, ancora quasi intatta, parla di un bosco esteso sulla riva sinistra della Valle del Sinni, dalla foce a santa Maria d’Anglona, per ben 13 km,ma il suo destino era segnato. Furono i politici a volerlo, e gli enti di riforma ad attuarlo, anche per una rivalsa che cancellasse per sempre il privilegio nobiliare. L’ultimo proprietario, il Barone Giulio Belingieri, si poteva permettere di tenere il bosco, unicamente per soddisfare i propri piaceri, la caccia, soprattutto al cinghiale, per il tempo che soggiornava a Policoro, mentre il resto del tempo viveva a Milano, occupandosi di corse di cavalli, con una rendita circa 5 mila volte più alta di quella di un suo dipendente. In più, il bosco, come una cosa inutile, con la caccia riservata al signore e padrone, nonché ai suoi amici e illustri invitati, mentre milioni di contadini non avevano terra per il proprio sostentamento. Una condizione francamente insopportabile, ma il bosco, che oggi ci sarebbe invidiato da tutto il mondo, andava conservato almeno in parte, per diversi motivi, dei quali non si tenne conto. Così tra il 1956 e il 1959, il bosco fu eliminato per circa 9/10. Ne parlarono i principali giornali di tutta Italia, e la giovane TV Rai, trasmise perfino alcune immagini in bianco e nero del favoloso bosco. Ma gli italiani, impegnati nella ricostruzione del paese, poco dopo una guerra rovinosa, e ancora privi di una, sia pur minima, coscienza ambientale, fecero presto a dimenticarlo.
Nell’estate 1973, mentre ero in pieno svolgimento di ricerche naturalistiche sul massiccio del Pollino, che di li a poco, sarebbe diventato il più grande Parco Nazionale europeo, a qualcuno venne l’idea di andare a dare un’occhiata alla foce del Sinni, dove si diceva esistesse, malgrado tutto, ancora qualche resto del bosco.
È qui rimanemmo di stucco , “ma c’è ancora”, esclamammo quasi in coro, un fitto e buio bosco, ricco di piante annose e di rampicanti, sembrava volerci sballare la strada verso il fiume. A tratti si apriva in radune paludose, dalle quali partivano in volo gruppi di anatre, e quasi sembrava possibile vedere ancora fuggire i cinghiali. Qualche placido bovino pascolava con le zampe nell’acqua. Il sentiero ci guidava ora verso la foce, e infine raggiungemmo la spiaggia, dove nei giorni prossimi a ferragosto, non si vedeva anima viva a perdita d’occhio.
Che dire !! Niente male per un biotopo naturale “scomparso”, no?
Si avvertì subito la necessità di informare le associazioni ambientaliste della nostra “scoperta”, che si tramutò poi nell’idea vincente : rivolgerci direttamente al presidente del WWF, che anni prima aveva combattuto la battaglia pro bosco, rimanendo quindi emotivamente coinvolto dalla vicenda. Fulco Pratesi, mi rispose : “caro Gianni,(..),vieni a trovarmi al mio studio, così mettiamo in moto tutta la macchina”.
Fu così che si ricominciò a parlare di Policoro, dopo vent’anni di silenzio. Intanto le ricerche sugli insetti dimostravano sempre più chiaramente l’eccezionale biodiversità di quel territorio, tanto da potersi parlare di un insospettabile primato italiano.
Ma non è tutto oro quello che luccica, e così ci dovemmo presto accorgere per quale motivo vero il Bosco residuo era stato conservato: per decenni tutti avevano approfittato del Bosco per occultare ogni sorta di rifiuti ingombranti, speciali, velenosi in una parola “pericolosi”, sui quali nel frattempo è cresciuta la vegetazione. Diviene presto evidente, per una conservazione sensata ed efficiente, occorresse procedere alla bonifica del territorio e ad un restauro dell’ecosistema, altrimenti la Regione Basilicata si troverà a gestire una pattumiera, per di più abusiva, anzi un deposito di ferraglia arrugginita, sia pure Orientato, come è ben specificato nel decreto istitutivo, che è stato già disatteso prima di cominciare, essendo state messe a dimora piante estranee alla vegetazione originaria. Tanto per far capire cosa intendono per ecologia forestale certi personaggi, che agiscono su questo palcoscenico. Inoltre potremo così dare al mondo ambientalista, un altro motivo per ridere di noi: una passeggiata nella frescura del bosco, sarà uguale allo slogan “tetano garantito”. Scherzi a parte, il bosco prima di tutto bonificato, e il paese fornito di una discarica vera, autorizzata e manutenuta. Un agglomerato urbano privo di tale infrastruttura non è degno dell’appellativo di città, tanto più se come discarica di fortuna si utilizza una RNO.
Per rispettare le disposizioni di legge occorre limitare il rimboschimento alle specie originariamente presenti. Esse sono frassino ossifillo, pioppo nero e bianco, salice bianco, olmo campestre, ontano nero, farnia (quasi scomparsa) e carpino, che sempre accompagna le querce, e poi ristabilire almeno in parte la disponibilità idrica del territorio. Il riallagamento del Bosco, come stabilito dal Progetto attualmente in discussione, non è affatto una priorità, se non per qualche esteta impaziente. Il problema del “Bosco Pantano”, è squisitamente ecologico e non estetico. Il progetto presentato dal WWF, alla Regione Basilicata, si chiama “Osservatorio Regionale per la Biodiversità”, in sigla ORB. Non è un buon auspicio per un Osservatorio.
Fa impressione, soprattutto la cifra stanziata, pari a dieci miliardi delle vecchie lire. Sembra francamente esagerata, ma potrei sbagliarmi. Speriamo bene !

Gianni Gobbi, (naturalista entomologo romano, profondo conoscitore del Bosco di Policoro).