Il tavolo della trasparenza di ITREC, tenutosi nel pomeriggio di giovedì 1 giugno scorso, ha distolto per qualche ora l’attenzione dai fatti drammatici di Viggiano, per approfondire una questione altrettanto delicata come quella del decommissioning (dismissione) dell’impianto ITREC di Rotondella (MT).
Le operazioni di dismissione assumono una importanza fondamentale alla luce del parallelo processo di individuazione del deposito unico nazionale, nel quale convergeranno tutte le scorie radioattive italiane, stoccate nei vari siti sul territorio nazionale. Su questo aspetto vige la massima segretezza. Tuttavia è bene ricordare il polverone sollevato dall’amministratore delegato di Sogin, Riccardo Casale, che nel 2015 accusava il governo di “inerzia operativa”.
Le operazioni di decommissioning si concentrano sulla bonifica della fossa 7.1, sulla realizzazione di un impianto di cementazione del «prodotto finito» con annesso deposito temporaneo e sulla sistemazione a secco delle 64 barre di combustibile Elk-River, il tutto con la collaborazione tra ISPRA, ARPAB e la stessa SOGIN. Al momento la SOGIN ha ottenuto tutte le autorizzazioni per procedere con la rimozione della fossa e la realizzazione del deposito temporaneo, attività che a dire di ISPRA sono propedeutiche allo smantellamento definitivo del sito, che dovrebbe concludersi tra il 2028 e il 2032.
Una importante e preoccupante novità è emersa quando abbiamo posto il quesito relativo ai pericolosissimi inquinanti (trielina, cromo esavalente, ferro ed idrocarburi totali) rilevati nel giugno 2015 dai piezometri installati da ITREC per le attività di monitoraggio. È ancora in corso il piano di caratterizzazione dell’area (circa 6 ettari) e la SOGIN, nell’avvio delle procedure di comunicazione ai sensi dell’articolo 245 del codice dell’ambiente, ha declinato ogni responsabilità sulla grave contaminazione. Stando alle dichiarazioni del responsabile di ARPAB, la SOGIN reputerebbe la contaminazione ascrivibile ad una “sorgente storica” collegata alle attività di un impianto che operava su quel sito all’inizio degli anni ‘80, quello di Magnox. Dalle informazioni reperibili in rete, Magnox sarebbe riconducibile alla società Combustibili Nucleari, i cui soci erano la British Nuclear Fuel Ltd (società di stato britannica) e SOMIREN (gruppo ENI). Secondo quanto sostenuto dal responsabile di SOGIN, Magnox si sarebbe occupata sostanzialmente di produrre combustibile nucleare per alimentare le attività del sito di nucleare di Latina e le attività di Magnox si sarebbero definitivamente cessate a seguito dell’esito referendario del 1987, che sancì l’addio dell’Italia alle centrali nucleari.
A detta sempre di ARPAB, la situazione sarebbe sotto controllo e non vi sarebbero problemi per l’area circostante. Tuttavia, essendo il piano di caratterizzazione ancora in corso, non è possibile definire con certezza l’entità della contaminazione. Questa è una notizia che ci lascia perplessi e ci fa porre seri interrogativi su quelli che sono stati gli anni del nucleare: che cosa è realmente rimasto di quell’impianto che produceva combustibile nucleare? Dovevamo attendere il decommissioning per venire a conoscenza di questi altri pericolosi sversamenti? Cosa è successo dopo il referendum del 1987? Per caso i diretti interessati hanno abbandonato armi e bagagli senza mettere alcunché in sicurezza?
Quesiti questi che si aggiungono agli innumerevoli misteri che aleggiano nei cieli sempre più grigi della Basilicata.