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Esistono parole, evocative di personaggi, gesta, ricordi, le quali giungono a noi attraversando la storia del pensiero umano, impregnate con i sapori ed i colori dei secoli che seguono l’evoluzione della nostra civiltà, senza per questo perdere la propria originalità e la peculiarità delle immagini ad esse collegate.
Così è per il termine EROE, le cui caratteristiche, percepite come lo scorrere di un fiume, nate dalla sorgente dell’epica e della letteratura e contenute dagli argini del mito nel suo procedere verso il mare della conoscenza, si sono poi divise alla foce in un delta fatto da mille rivoli diversi.
Cantori e poeti, sin dalle origini della civiltà hanno trovato in questa figura l’ispirazione per la descrizione di un mondo fantastico, popolato da semidei (tali erano gli eroi per Platone), sempre alla ricerca della gloria e di un qualcosa o qualcuno da conquistare, che si trattasse del cuore dell’amata come di una ricca città, di sconfiggere un nemico crudele e sanguinario come di affrontare la furia degli elementi naturali, solcando mari ed oceani in tempesta.
E la morte, da temere solo se non “gloriosa” anch’essa, cosi da perpetuare il ricordo di un qualcuno che proprio grazie ad essa non sarebbe mai stato dimenticato, per l’eternità.
Storia e leggenda, dunque, che si alternano nell’avanzare dell’umanità, da Achille, guerriero invincibile e fragile, ad Ulisse, viaggiatore nel tempo e nello spazio alla ricerca delle proprie origini, passando per Ettore, principe nobile e sfortunato, che non sopravvivrà alla fine di Troia.
Gioventù e bellezza, esteriore e d’animo, vigoria fisica e disprezzo del “sopravvivere”, armature luccicanti e armi micidiali, attaccamento alla libertà e rispetto per il valore altrui, dignità del proprio ruolo e protezione verso i più deboli e indifesi, ma anche consapevolezza dei propri limiti e accettazione della sconfitta.
Esemplare, al riguardo, la storia di Leonida, eroe immenso, ma perdente, che ha anteposto la difesa della patria, amatissima, alla salvaguardia della propria vita, immolandosi affinché a Sparta, e con lei in tutta la Grecia, in tutto il mondo libero, si continuasse a costruire templi, scrivere trattati di filosofia e di matematica, elaborare i principi fondamentali della politica moderna, e, soprattutto, vivere con la prospettiva del domani.
Di fronte alla forza bruta di chi voleva distruggere tutto questo, sostituendolo con la tirannide e la prevaricazione, Leonida oppose la volontà di non arrendersi alle ineluttabilità degli eventi, non potendo credere nella vittoria, ma solo ed esclusivamente nell’adempimento del proprio dovere, di uomo, di guerriero, di marito, di padre; più forte del tradimento, più resistente delle frecce scagliate contro il mondo cui faceva scudo con il suo corpo.
Le Termopili come simbolo del “resistere ad ogni costo”, del non arrendersi mai. Lottando da “prode”, con l’altruismo proprio di chi non vuole nulla per sé, ma tutto per gli altri.
Caratteristica, quest’ultima, che con profili apparentemente opposti, ma con una forza ancora maggiore, sembra costituire l’essenza dell’opera in vita di un vero “eroe” medievale, Francesco d’Assisi, capace di rinunciare ai propri privilegi e alle proprie comodità, spogliandosi delle vesti e con esse del proprio ceto sociale, per dedicarsi completamente a difendere la Chiesa di Cristo dall’abisso della materialità e della mondanità in cui rischiava di essere definitivamente risucchiata e, con essa, l’intera collettività di allora.
Il coraggio di affrontare la fame, il freddo, l’indifferenza altrui, e soprattutto di saper cogliere il momento di “ribellarsi” allo status quo quando questo sia governato da forze avverse ai più elementari principi di umanità e convivenza civile, senza, anche qui, la certezza di vincere, ma solo di lottare e rappresentare un esempio positivo per chi, magari, quel coraggio non ha avuto.
Francesco, un autentico guerriero della fede, ma anche un vero combattente nell’affermazione dell’uomo nuovo, moderno, svincolato dalle tante superstizioni che lo rendevano schiavo e succube di una autorità che aveva smarrito la propria missione di guida e indirizzo, un gigante di fronte a un esercito di nani, la cui immagine riflessa negli specchi distorti dalla vanità sembrava far apparire dei ciclopi.
Il “poverello di Assisi”, con la titanica forza della semplicità, ha fatto deflagrare quelle superfici riflettenti per restituire ad ognuno la propria reale dimensione, senza orpelli artificiali, mettendo a nudo la verità, rivestendola di autenticità.
Cosa è questo, se non un atto eroico?
È più intrepido chi conquista popoli e Paesi, imponendo la legge del più forte o, invece, chi oppone a questo l’intelligenza della conoscenza e la “pietas” che contraddistingue la donna e l’uomo da tutti gli altri esseri viventi?
La natura mitica dell’eroe epico, considerato metà dio e metà uomo, raffigurato nella sua statuaria bellezza, è la vera essenza del “nostro protagonista”, o invece è la nobiltà del suo agire che lo avvicina alla divinità, intesa come sublimazione del contingente e recupero dei valori originari?
La storia è disseminata di “pseudo eroi” che hanno compiuto gesta riprovevoli, ammantate di falsa retorica, e di persone comuni che, invece, hanno posto in essere atti davvero eroici, spesso dimenticati.
Volti anonimi, di donne e uomini che hanno saputo dare testimonianza, con le proprie azioni, dei principi di libertà, uguaglianza, tolleranza, donando ad essi l’immortalità, trasmettendoli alle giovani generazioni; interi popoli che, stanchi del grave giogo cui biechi oppressori li avevano costretti, si sono ribellati distruggendo imperi e formando stati, basati sul concetto di nazione.
Tutti EROI del proprio tempo, ma proiettati verso il futuro, trasformando i drammi dell’oggi nel seme, fertile, del domani, traghettando il proprio vivere attraverso i secoli, affrontandone i pericoli e combattendo contro le manifestazioni più basse del genere umano.
EROI spesso soli, perché contro il sistema, quando il sistema si sia degradato fino a rappresentare la radice stessa del male, celato dietro un velo di laica idolatria e di falsi miti.
Basta scorrere il nastro della storia, per rinvenire tutto ciò, e pochi esempi sono sufficienti a portarci sino alle porte dei nostri giorni.
La guerra come comune denominatore, “homo homini lupus”, l’egoismo individuale e collettivo come principale obiettivo da perseguire.
Ai tempi di Francesco d’Assisi, mentre lui percorreva a piedi nudi i sentieri della pace, i massacri e gli eccidi delle Crociate e del conflitto tra le maggiori due religioni monoteiste (una contraddizione in termini!).
Nei secoli a seguire, l’espansione della “civiltà” nel Nuovo Continente ha portato con sé la distruzione di popolazioni indigene millenarie e la deportazione forzata di centinaia di migliaia di individui dall’Africa alle piantagioni del Nord e Sud America, trasformando forzosamente il quadro demografico mondiale.
Tutto questo, per l’avidità di guadagno, e la volontà di sopraffazione da parte dei “falsi eroi”, sanguinari conquistadores dediti a soggiogare le popolazioni autoctone e a provocare il loro genocidio.
E la fede usata, strumentalizzata, ai fini terreni. Poche le voci che in quei frangenti ebbero il coraggio di alzarsi a difesa dell’uomo, universalmente inteso, in un mondo assetato di denaro e potere. Poche le coscienze in grado di opporsi, se non qualche EROE, ancora l’unico in grado di lottare per un giusto ideale nell’eterna diatriba con l’altra faccia della medaglia, il falso mito.
I moti rivoluzionari, dapprima in America del Nord poi in Francia, passando per l’America Latina fino a sbarcare nuovamente nel Vecchio Continente, fecero emergere diverse figure “eroiche”, come il nostro Giuseppe Garibaldi, “l’eroe dei due mondi”, icona senza tempo del sogno di libertà di intere generazioni, fino ai primi decenni del secolo scorso, quando dalle ceneri del Primo Conflitto Mondiale sorsero le “grandi dittature”, in Russia, in Italia e in Germania. E, con esse, la “notte della ragione”. E come in ogni notte, nel buio è difficile distinguere quale sia la strada giusta da percorrere.
Proprio in tali, convulse circostanze, il contributo di figure, molto spesso sconosciute alla massa, ma profondamente significative per l’apporto fornito alla affermazione dei principi universali di libertà e uguaglianza, appare costituire il “lievito buono” della nostra collettività nazionale, che sa riempire di contenuti concreti, veri e drammaticamente rappresentativi, un singolo gesto di eroismo.
Così è stato per il Finanziere Vincenzo Rutigliano, Medaglia di Bronzo al Valor Militare, trucidato dagli occupanti nazisti il 21 settembre 1943 nel corso dei combattimenti in cui i militari della Guardia di Finanza affiancarono i cittadini materani nella difesa della città.
Pochi giorni prima dell’armistizio, infatti, i tedeschi occuparono Matera, stabilendosi nei punti principali del territorio, dai quali potevano controllare tutte le vie d’accesso. Sbarrando le strade della città con postazioni di mitragliatrici e di cannoni anticarro, procedettero altresì al disarmo di un battaglione di avieri italiani, bruciando le loro armi e munizioni sul piazzale del campo sportivo.
Da quel momento in poi, le truppe germaniche iniziarono a compiere ogni genere di prepotenze e ruberie a danno della popolazione materana, spogliando negozi, derubando le persone degli oggetti di oro e argento, di orologi ed occhiali, entrando finanche nelle case e negli uffici, portando via apparecchi radio, abiti, stoffe, biancheria ed ogni altra cosa potesse interessare.
Così si verificava nelle campagne, con la razzia di animali, l’abbattimento di alberi da frutta, la distruzione di cascine. Le linee telefoniche furono interrotte, mentre presso la stazione ferroviaria vennero dati alle fiamme vagoni, automotrici e un deposito di carbone.
La popolazione, colpita da tal genere di angherie, mordeva il freno ed aspettava il momento della riscossa.
Venne il 21 settembre. Da alcuni giorni si vociferava dell’avvicinarsi dell’esercito alleato, sicché, quando verso le ore 17.00 si cominciarono ad udire i primi colpi di arma da fuoco, molti credettero che si trattasse di uno scontro tra soldati tedeschi e forze alleate.
Ma ben presto si apprese come in realtà fossero i materani ad attaccare l’odiato oppressore. La scintilla della rivolta scoppiò in Via San Biagio, dove due soldati tedeschi erano entrati in una oreficeria per fare razzia di oggetti d’oro, ma per loro sfortuna si trovarono a passare di lì per caso alcuni militari e nacque una lotta che terminò con la morte dei due tedeschi. Si accese, così, una vera battaglia che si propagò, in breve, per tutta la città. Si combatté nel rione S. Biagio intorno al comando Sottozona, nella piazza centrale di Matera di fronte al magazzino vestiario ed equipaggiamento della Guardia di Finanza ed in via Cappelluti, sede proprio del Comando della Guardia di Finanza; ma azioni sparse ed isolate si ebbero un po’ dappertutto nella zona pianeggiante della città. I tedeschi, in seguito al fuoco contro di loro, si ritirarono al di là dei giardini pubblici, donde più tardi iniziarono il bombardamento del sunnominato rione S. Biagio a mezzo di cannoncini anticarro. Furono cosi danneggiati l’edificio della Sottozona, colpito da due proiettili dei quali uno inesploso, le case adiacenti e molte abitazioni popolari.
Intanto i militari tedeschi si avvicinavano alla Piazza ed i Finanzieri di guardia al magazzino centrale, temendo di essere sopraffatti dai nemici, inviarono Emanuele Manicone, esattore della Società elettrica, verso via Cappelluti per informare il Tenente, Comandante della Compagnia della Guardia di Finanza, di quanto stava accadendo.
Il Maresciallo Gaetano La Cascia, il Brigadiere Antonio Intermite ed i Finanzieri Vincenzo Rutigliano e Pietro Fullone, seguiti da Emanuele Manicone, nascosti dietro le siepi della Camera di Commercio, spararono con furore contro sei soldati tedeschi giunti lì in motocarrozzetta. Furono feriti tre militari tedeschi, che riuscirono a fuggire a bordo di una seconda motocarrozzetta.
Sulla Via Cappelluti, dinanzi al Comando della Guarda di Finanza, nel frattempo erano giunti altri militari tedeschi che inasprirono con raffiche di fuoco lo scontro con i Finanzieri, tra cui il Sottotenente Tommaso Cavacece, il Brigadiere Francesco Cipriani, l’Appuntato Giovanni Zoli ed i Finanzieri Donato Loprieno, Leopoldo Maccherozzi e Vincenzo Rutigliano. Nello scontro il Finanziere Vincenzo Rutigliano, al quale oggi è intitolata la Caserma della Guardia di Finanza di Matera, restò ucciso, mentre Emanuele Manicone, gravemente ferito, riuscì a raggiungere una casa in Via Torraca dove, assistito da alcuni civili, morì poco dopo.
L’eroica insurrezione dei materani, in quel tragico 21 settembre 1943, impedì ai tedeschi di radere al suolo molti palazzi, fra cui il Palazzo del Governo, il Tribunale, la Camera di Commercio, la Provincia e le varie Caserme ed evitare, successivamente, il bombardamento alleato sulla città.
Matera è stata la prima città del Sud Italia ad insorgere contro il nazifascismo.
A seguito dei fatti sopra esposti veniva conferita la Medaglia di Bronzo al Valor Militare al “Finanziere Vincenzo RUTIGLIANO”, con la seguente motivazione:
“Mentre tentava di portare rinforzo a commilitoni che stavano per essere sopraffatti da nuclei motorizzati tedeschi nel centro della città, si imbatteva col nemico diretto alla caserma e nello scontro, difendendosi strenuamente, cadeva da prode”
Matera 21 settembre 1943
Vincenzo Rutigliano aveva sposato una vedova con già quattro figli, e dopo due mesi dalla sua morte nacque Vincenza, sua figlia, con la moglie che avrebbe dovuto crescere, da allora in poi, sola, ben cinque figli.
Vincenzo, quella mattina del 21 settembre, benché avesse coperto il turno notturno e, pertanto, avesse terminato il servizio, non esitò ad unirsi ai propri commilitoni per partecipare alla resistenza contro i tedeschi, sacrificando la sua giovane vita e, con essa, gli effetti più cari.
Un contesto, forse, lontano dagli odierni parametri sociali e culturali, ma che costituisce ancora, dopo 81 anni, un esempio di spontanea ed irrefrenabile dedizione a quell’idea di libertà che consente oggi, a tutti noi, di vivere, senza censure, la nostra indipendenza intellettuale.
Così come la Guardia di Finanza, nel suo 250° Anniversario che celebriamo quest’anno, vuole rappresentare una istituzione moderna, adeguata ai tempi, ma al contempo saldamente ancorata alle radici del passato, nel rispetto dei principi fondanti la nostra democrazia, nata dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, e dal sacrificio di tanti “Rutigliano”, che nel silenzio di molti hanno riscattato la libertà di tutti.